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INSIDE MAN
(INSIDE MAN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 aprile 2006
 
di Spike Lee, con Denzel Washington, Clive Owen, Jodie Foster, Willem Dafoe, Christopher Plummer, Chiwetel Ejiofor, Thierry Henry (Stati Uniti, 2005)
 
Sorpresa, sorpresa? Un film su commissione, un film di genere, la rapina sfrontata alla banca nel bel mezzo di Wall Street, l'irruzione con i mitra spianati ed il bancone scavalcato a piè pari alla ricerca della cassaforte, l'ingiunzione ai clienti di sdraiarsi senza muovere un dito, la polizia sgommante a sirene spianate. Il massimo del confort insomma, l'occhiolino al botteghino hiollywoodiano, indispensabile dopo il fallimento del discretamente scipito LEI MI ODIA. Ma tutto ciò proprio da parte sua, lui l'enfant terribile della rabbia sovversiva di FAI LA COSA GIUSTA, dell'ironia black di JUNGLE FEVER e, prima ancora, della libertà di quegli schizzi graffianti, ai confini fra grafica cartoon e gag surrealista, dialoghi esilaranti tipici dell'improvvisazione cool della cultura afro-americana?

Forse avevamo perso di vista la logica interna di una carriera pur eccentrica e fluttuante come quella di Spike Lee: di come dall'epoca della provocazione militante era passata a quella del messaggio ambizioso e quasi accademico di MALCOLM X, quindi alle contraddizioni ma pure alle riflessioni mature dello sfortunato CLOCKERS. E, via di seguito, fino alla generosità disordinata ma impegnata del paradossale, e regolarmente sottovalutato SUMMER OF SAM. Fino al capolavoro, LA 25MA ORA, cronaca delle ultime ventiquattr'ore di libertà di uno spacciatore; ma, soprattutto, primo vero ritratto, melanconico, lucido e preveggente della New York del dopo 11 di settembre. Spike Lee è da sempre il cineasta dell'istante presente, della fisicità e della dinamica; assai meno quello della costruzione accurata, della conseguenza temporale. Tutto ciò serve a spiegare il perché della riuscita di un film ingessato, ma in definitiva solo apparentemente nella disciplina degli schemi di genere come INSIDE MAN. Che permette al regista di non rinunciare a quelle sue prime prerogative: ma che gli impone di adeguarsi alle seconde. E innanzitutto alla grande idea dell'ideatore della rapina, che è poi come dire dell'inventore della sceneggiatura, l'esordiente Russell Gerwitz: far indossare agli ostaggi dell'operazione, alla gente comune, alla brava e malcapitata gente, gli stessi indumenti - delle tute da lavoro - sotto i quali si celano i malfattori. Burloni o criminali, vittime o carnefici? La stessa, identica maschera che impedisce alle fisionomie, ma non solo a quelle, di rivelarsi finirà per confondere, con tragicomici e addirittura farseschi risultati le forze dell'ordine. Come pure, con un'ambiguità d'intensità e utilità crescente, gli interrogativi che, sotto la vernice dell'azione e dell'humour, il film riuscirà a sollevare.

Da un lato il rigore e la tensione del cinema esplicitamente riferito, quello del Sidney Lumet di QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI. Dall'altro, la destabilizzazione di una vicenda a scatole cinesi che progressivamente s'investe nel paradosso; a cominciare da quello che i rapinatori sembrano disinteressarsi del tutto dei soldi contenuti nei forzieri. Da quel disorientamento generale INSIDE MAN non cava allora soltanto le ragioni di uno script funzionalmente astuto: ma la stessa inquietudine, l'eco di un malessere generalizzato nella New York multietnica ma ormai razzista (con l'indiano con il turbante al quale danno dell'Arabo) che aveva fatto grande LA 25MA ORA. La confusione, ma pure l'ossessione nel distinguere il bene dal male dell'America delle guerre preventive, l'incertezza che si insinua nei discendenti dei pionieri giusti e degli artefici illuminati del melting pot nel sapere distinguere fra il bene e il male. Sotto la stravaganza della situazione, grazie ad una originale costruzione in “flash forward” che ci fa preventivamente assistere agli (inutili) interrogatori chiarificatori che avverranno a rapina conclusa, ad una regia tradizionalmente nervosa, ipersensibile e creativa, a degli attori impareggiabilmente complici, ai dialoghi ed alle musiche sempre pimpanti Lee trasforma la banalità in amoralità; operazione oltre che dilettevole sicuramente istruttiva.


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